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La Spagna che nella New York del 1960 Miles Davis e Gil Evans avevano cesellato in un disco perfetto, quella Spagna trasfigurata in una musica che ha ancora oggi l’eloquenza e la verità dei sogni, torna finalmente a casa, al domicilio che le viene naturale, nello splendore flamenco di Israel Galván.
Danza sovrannaturale la sua, e non solo per il virtuosismo d’interprete, ma per la ricerca costante di un’oltranza, un’eccedenza, una sproporzione tra gesto umano e ciò che la musica, o il silenzio, non arrivano a dire. Ecco l’Andalusia, polvere e luce, cieli viola e ombre nere come bibbie.
Ecco Aranjuez, ebbrezza della malinconia, il demone meridiano, il lutto dei giardini. Ecco le processioni della Settimana Santa, il canto rituale dei balconi, la straziata e orgogliosa solitudine. Emozioni incarnate nell’impeto di un solo corpo polifonico.
Se Gil Evan era riuscito, parole di Miles, a far suonare un’orchestra come un’unica chitarra, l’arrangiamento e l’orchestrazione di Michael Leonhart per il piccolo ensemble ideato da Alberto Fabris, la geniale introduzione in organico dei violoncelli, rivelano ancor più chiaramente il moto dei ritmi e delle costellazioni armoniche, la purezza delle melodie, la forza indistruttibile delle antiche scale arabe che scavano, si piegano e si attorcigliano nell’animo come un blues andaluso.
In fondo la Spagna non si è mai mossa da qui, da questa prima ibridazione dell’Africa nera in una musica che dopo alcuni secoli verrà chiamata jazz.
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